L'aggressività è una malattia?
Si tratta di un argomento complesso: proviamo a semplificare
un po’ alcuni concetti, non per banalizzarli ma per analizzarli
meglio e restituire la complessità in modo più
consapevole.
E’ un un argomento complesso perché associato ad
emozioni forti e spesso connotate negativamente: l’odio,
la rabbia, la distruttività, il rancore…
Cerchiamo innanzitutto di confutare un comune malinteso: l’equazione
aggressività = violenza.
È un malinteso che genera atteggiamenti pedagogici confusi,
poco corretti, che ci porteranno a negare, rimuovere, castrare
l’aggressività e il desiderio aggressivo.
In realtà l’aggressività è una pulsione,
in sé ne buona né cattiva: anzi, come tutte le
pulsioni (sessuale, sociale) è evolutivamente maturata
nel genere umano per garantire la sopravvivenza della specie
e dell’individuo.
Etimologicamente, il latino AD GREDIOR significa andare verso,
avvicinarsi, o anche intraprendere qualcosa
Dunque l’aggressività come pulsione:
E’una spinta energetica vitale che porta al raggiungimento
di uno scopo
Spinge all’affermazione di sé, dell’individuo
o del suo gruppo di appartenenza
È rivolta al raggiungimento del piacere (“la guerra
è bella anche se fa male” De Gregori)
Se accettiamo questo postulato ne consegue che il compito educativo
sarà piuttosto quello di aiutare il bambino ad investire
questa energia potenzialmente sana nello sviluppo e nell’adattamento
alla realtà; di aiutare il bambino a maneggiarla, creandogli
occasioni per abituarsi al controllo, per orientarla verso investimenti
socialmente accettabili.
Dunque possiamo cominciare facendo lo sforzo di associare alla
parola aggressività non soltanto delle emozioni negative
(odio, rabbia, rancore) ma anche emozioni ed istanze evolutivamente
sane, positive: il desiderio di affermazione di sè, di
trasformazione dell’esistente e di risoluzione dei problemi,
di confronto, di autonomia, etc.
Essa è operante fin dalla nascita: serve al bambino per
nascere, per iniziare a respirare, per cercare il seno, per
esplorare l'ambiente (afferrare giocattoli, romperli, lanciarli,
per andare in giro, ecc.), per imitare figure significative,
per dire no, per combattere le frustrazioni e superare le difficoltà
della vita.
In termini più progrediti essa può servire ad
essere perseveranti nel volere realizzare un progetto, investendo
nel tempo e nell'attesa attiva.
Detto questo, possiamo riflettere sul fatto che esiste anche
un impulso aggressivo di tipo distruttivo, prevaricante, legato
alle emozioni di cui si diceva prima: è certamente compito
di chi educa favorire un controllo di questi impulsi, aiutare
il bambino ad imparare a governarli.
Attenzione, ho detto governarli e non castrarli: Bettelheim,
uno che la sa lunga, dice:
"C'è un diffuso rifiuto a permettere al bambino
di sapere che gran parte degli inconvenienti della vita sono
dovuti alla nostra stessa natura: alla propensione di tutti
gli uomini ad agire in modo aggressivo, asociale, egoistico,
spinti dall'ira e dall'ansia. Noi vogliamo invece far credere
ai nostri bambini che tutti gli uomini sono intrinsecamente
buoni; ma i bambini sanno che loro stessi non sono buoni, e
spesso, anche quando lo sono, preferirebbero non esserlo. Ciò
contraddice quanto viene loro detto dai genitori, e quindi rende
il bambino un mostro ai suoi stessi occhi".
Vedete, a volte le sfumature modificano profondamente il senso
di una comunicazione: possiamo essere d’accordo sul fatto
che un bambino che tira un calcio a sua sorella vada sgridato:
ma un conto è dire “se la picchi sei cattivo”,
un altro è dire “capisco che tu ce l’abbia
con tua sorella, ma non devi picchiarla”.
La prima comunicazione inibisce il comportamento senza dare
alternative né comprensione della motivazione (dovresti
essere intrinsecamente buono); la seconda da comprensione sul
piano di ciò che il bambino sente (è umano provare
collera) ma chiede di trovare un’alternativa sul piano
della scelta di un comportamento (tirare un calcio).E’
come dirgli: ”l’aggressività esiste, figlio
mio! Bisogna che impariamo a farci i conti”
Allora, come possiamo fare per aiutare il bambino ad imparare
a governare questi impulsi?
Naturalmente è un problema complesso, ma proviamo ad
analizzarlo.
La prima cosa da fare è mettersi in una posizione di
ascolto, provare a dare significato alla comunicazione del bambino:
Possiamo avere varie motivazioni per l'aggressività e,
di conseguenza, numerosi significati:
-di conquista di un proprio spazio vitale e dei mezzi di sussistenza
in opposizione ad altri esseri viventi;
-di possesso esclusivo: lottare per avere tutta per sè
l'attenzione dell'adulto, o più in generale dell'altro,
attraverso grida, richiami verbali, silenzio, azioni fisiche.
Ad esempio può succedere quando i genitori parlano con
altri loro amici o guardano la televisione;
-di gelosia : i bambini che si mettono in mezzo ai due genitori,
o che si mettono in mezzo tra adulti e altri bambini quali fratelli,
compagni di classe, ecc.;
-di differenziazione e di separazione: il bambino oppositivo
o trasgressivo opera spinto dalla necessità di affermare
il proprio diritto di esistere con una identità e dei
desideri diversi da quella degli adulti che si occupano di lui;
-di affermazione attraverso la negoziazione, l'iniziativa nel
fare cose da soli, nel giocare a confrontarsi in giochi di forza
o di destrezza con gli adulti;
-di ricerca di relazione e usata quindi come richiamo per l'attenzione
degli altri o come modalità per entrare in contatto ed
in comunicazione con gli altri, (questo capita quando si è
in situazioni non conosciute: ad esempio quando si incontrano
per la prima volta delle persone per scaricare l'imbarazzo e
la paura dell'ignoto; ad esempio nei bambini, e soprattutto
negli adolescenti, quando entrano in rapporto con esponenti
dell'altro sesso; in bambini disturbati che hanno come unico
mezzo di comunicazione l'aggressività e la violenza);
-di rivalità fraterna o, comunque, con altri bambini;
-per eliminare le cause di una frustrazione (eliminare un ostacolo
che impedisce di giocare a pallone, cercare di allontanarsi
da un posto in cui si sta troppo stretti o cercare di allontanare
gli altri dallo stesso posto);
-per scaricare la tensione generata dalla frustrazione (con
un comportamento fissato e stereotipato, che esprime la rinuncia
a tentare di rimuovere gli ostacoli che impediscono il raggiungimento
della meta;
-eccetera.
Comprendere il significato del comportamento aggressivo permette
all’adulto di aiutarlo a rimuovere o a far evolvere la
causa del comportamento.
E’ poi importante valutare la forma del comportamento:
-se violento (acting out) occorre contenere;
-se deviata, indiretta, bisogna aiutare il bambino a dirigerla
convenientemente;
-se di confronto osservare e poi aiutare a rielaborare per confermare
o problematizzare: invito alla negoziazione
V è poi la possibilità di fare della profilassi:
Costruire un sistema di regole che possa contenere, definire
il campo d’azione: in quante scuole esiste, per esempio,
lo spazio della lotta?
Qui sarà importante trovare un equilibrio tra porre dei
limiti e tollerare alcune manifestazioni aggressive (i maschi,
solitamente, sono ampiamente penalizzati da una sensibilità
eccessivamente femminile che poco tollera qualsiasi comportamento
aggressivo, tranne quelli verbali!)
Le modalità di intervento dell’adulto possono essere:
Autoritario, che impone rigidamente regole indiscutibili;
Autorevole, propone un comportamento coerente, sa ascoltare;
tiene conto del contesto; interviene ma permette al bambino
di uscire da un conflitto a testa alta;
Permissivo, da un messaggio di scarso interesse (te ne freghi
di me)
In Psicomotricità Relazionale si tende a favorire la
simbolizzazione e la produzione di metafore: questo permette
di:
far emergere
direzionare
controllare
l’aggressività all’interno di uno spazio
protetto.
Permette inoltre di capire e sperimentare i diversi percorsi
dell’aggressività:
•La violenza, la sopraffazione e i sentimenti di onnipotenza
•L’auto-affermazione come difesa dell’io e
i sentimenti egocentrici
•Il confronto e la collaborazione: accettazione dell’auto-affermazione
propria e dell’altro.
Concluderei affermando che l’aggressività non
si castra, ma la si elabora e la si educa.
CARLO PETITTI